14° Congresso FULI, la relazione introduttiva del Segretario uscente Enzo Merlini
Un caloroso benvenuto a tutte le delegate, i delegati e gli ospiti che con la loro presenza onorano questo 14° Congresso della FULI/CSdL. Quando abbiamo celebrato il 13° Congresso, 4 anni fa, avevamo appena avuto evidenza, grazie alle indagini della Magistratura, di come il malaffare e l’interesse personale avessero per decenni contaminato buona parte dell’azione politica. Auspicavamo che eventuali condanne, alcune arrivate nel frattempo in primo grado, e una nuova classe dirigente avrebbero ridato fiducia ai cittadini e fornito un nuovo slancio alla Repubblica di San Marino, basato sulla ricerca di una rinnovata unità delle forze politiche, sociali ed economiche, per il bene di tutti.
Ci ritroviamo invece con un Paese diviso come non mai e ordinanze che gettano un’ombra rispetto ad alcune scelte operate dall’attuale Governo. Ad oggi non abbiamo elementi certi per affermare se e quanto in profondità soggetti esterni abbiano condizionato la politica, ma ciò che pare emergere è la soggezione di pezzi dello Stato, quali Banca Centrale e Cassa di Risparmio, a comandi che nulla avevano a che vedere con l’interesse pubblico e dei soggetti rappresentati. È indispensabile pertanto che venga fatta chiarezza al più presto, sia perché i cittadini e le persone che rappresentiamo meritano che sia fatta giustizia, in caso qualcuno abbia commesso illeciti, sia perché è necessario capire se è stata nuovamente tradita la fiducia ricevuta nelle urne, e mi riferisco anche ai comportamenti e non solo agli atti compiuti, al fine di avere nuovi elementi di valutazione quando si tornerà alle elezioni.
Così come 4 anni fa ritenevamo che fosse necessaria una tregua tra le forze politiche, per costituire una sorta di fronte comune che attuasse le riforme più impellenti con il contributo di Sindacato ed Associazioni di categoria, anche in questi ultimi mesi lo abbiamo nuovamente sostenuto, prima con lo sciopero generale del 30 maggio scorso e poi in occasione dell’Attivo dei Quadri CSU di fine settembre. Parole ancora una volta cadute nel vuoto, nonostante una piazza piena oltre ogni più rosea aspettativa, visto che non si trattava di sostenere rivendicazioni di parte. Trainati da uno slogan eloquente, “Uniti per il Paese”, i manifestanti chiedevano, tra l’altro, equità e giustizia sociale, ma il Governo non ha ritenuto neanche di convocare chi li ha rappresentati, ovvero la CSU.
Ritengo che la parola “delusione” rappresenti meglio di qualunque altra lo stato d’animo delle maggior parte delle persone che si guadagnano da vivere onestamente e di quelle che vorrebbero farlo ma non trovano lavoro. Il passo che c’è tra la delusione e la rabbia è però molto breve ed è anche per questo che non abbiamo rinunciato a caratterizzare il 19° Congresso della CSdL con uno slogan ottimista, ovvero “#insiemeper”. Ciò non toglie che la CSdL è sempre pronta a far sentire la propria voce con le modalità che le circostanze richiedono.
A seconda delle proposte in campo e del contesto in cui si collocano, sappiamo usare sia azioni di contrasto che atteggiamenti di responsabilità. Questi ultimi sono però possibili solo se assunti da tutte le parti in causa. Infatti, intenzioni di riforme epocali, portate avanti da Governi che non riuscissero ad intraprendere un dialogo costruttivo con quasi nessuno al di fuori della ristretta cerchia dei partiti che li sostengono, sarebbero destinate a fallire.
A maggior ragione in una prospettiva di indebitamento pubblico per il rifinanziamento della Cassa di Risparmio, che peserà comunque come un macigno sulle future generazioni, sia che si concretizzi in ulteriori 500 milioni come sostiene il Governo, sia che necessiti di interventi inferiori di circa 200 milioni, come invece ritiene l’opposizione. Non posso dimenticare un episodio in particolare che ha creato una frattura tra la CSU ed il Governo e che condiziona tuttora i relativi rapporti in quanto, a parte generiche ammissioni di responsabilità rispetto ad un metodo di confronto non sempre rispettoso degli interlocutori, finora non ha portato ad un reale cambio di marcia.
Mi riferisco alla faccenda dei titoli acquistati da Banca Centrale in favore di Banca CIS, poco dopo che fu emanato dal Governo il Decreto che espropriava al Comitato Amministratore di FONDISS la facoltà di prendere decisioni in merito all’allocazione dei Fondi del secondo pilastro. Nonostante l’affronto che il Governo aveva messo in atto con questo Decreto, ci siamo pazientemente seduti ad un tavolo ed abbiamo raggiunto un accordo, che da un lato prevedesse la revoca di quell’atto e dall’altro il contestuale impegno da parte nostra di adoperarci, per quanto di nostra competenza, per mantenere i relativi fondi all’interno del sistema bancario sammarinese fino a fine 2017.
Tutto ciò con l’impegno da parte del Governo di non portare immediatamente a ratifica del Consiglio Grande e Generale il nuovo Decreto e di rendere nota la situazione delle banche, al fine di avere più concreti elementi di valutazione rispetto alla solidità dei singoli istituti presso i quali vengono investiti i fondi pensione. Ebbene, il Governo ha invece subito violato detto accordo senza fornire alcuna spiegazione.
Ognuno può farsi la propria idea, leggendo le conversazioni tra Banca Centrale ed il soggetto esterno citate nell’ordinanza del Giudice Morsiani ed il quadro descritto che pare emergere dalle indagini. È desolante, fatto di favoritismi o accanimenti a seconda di quale fosse il soggetto vigilato, oltre ad un tentativo di condizionamento dell’azione di Governo dettato dalla costante minaccia di pesanti ricadute sulla Cassa di Risparmio.
Non posso sapere se e quanto abbia influito tutto ciò nell’ambito di certe scelte, ma ritengo che qualunque Governo, di fronte ad una Banca Centrale che avrebbe addirittura avuto un atteggiamento ricattatorio, minacciando di commissariare Cassa, avrebbe dovuto portare alla ricerca della massima condivisione possibile di determinate azioni. Tutto il contrario di ciò che è successo, anzi stiamo tuttora assistendo ad una difesa a spada tratta di ogni provvedimento assunto. Sottolineo piacevolmente che, stando alle conversazioni citate dall’ordinanza, le posizioni assunte dalla CSU hanno fanno sì che fossimo considerati un ostacolo al compimento del disegno esterno in merito all’utilizzo dei fondi pensione in favore del sistema bancario sammarinese, ancora non è chiaro se di tutto o solo parte di esso. Non può essere un caso che da lì a meno di un anno arrivino lettere anonime che, guarda caso, indicano dirigenti sindacali quali soggetti pilotanti le decisioni del Consiglio per la Previdenza rispetto agli investimenti.
Questo nonostante vi siano regolamenti adottati concordemente all’interno di detto organismo proprio per la massima trasparenza degli atti. Tra i soggetti minacciati, perché la minaccia è il solo scopo di tali lettere anonime, vi è anche il nostro Segretario Generale, Giuliano, cui va tutta la nostra solidarietà e sostegno.
Proprio colui che, ad onor del vero assieme alla CDLS e ad altre persone, ha fatto sì che buona parte dei Fondi Pensione fossero investiti in Pronti Contro Termine, in luogo dei più rischiosi titoli di liquidità. Non a caso ancora oggi il sistema bancario, con il sostegno del Governo, preme per avere la piena disponibilità di utilizzo di tali risorse. Si badi bene, la CSU non ha mai messo paletti o vincoli pregiudiziali ad alcun tipo di intervento che serva al Paese e non ad interessi particolari, ma ha chiesto e continua a chiedere di essere messa nelle condizioni di avere tutte le informazioni atte a poter assumere decisioni consapevoli e condivise con i lavoratori. Non è sufficiente pertanto una generica illustrazione dello stato del sistema finanziario, peraltro svolta da Banca Centrale in maniera incompleta in merito alla gestione autonoma degli NPL da parte dei singoli istituti bancari e rispetto a quali saranno su di essi gli effetti derivanti dall’applicazione dei criteri di Basilea 3.
A tutela dei lavoratori e dei pensionati che affidano i loro risparmi alle banche, ritengo che occorra assolutamente evitare altri shock come quello relativo alla pessima gestione della vicenda Asset, così come è necessario avere evidenza del reale stato di salute delle banche, perché non possiamo approcciarci al piano di riforme annunciato senza conoscere se vi saranno ulteriori effetti sulla finanza pubblica. È improbabile che potenziali investitori approdino a San Marino senza che venga fatto un quadro chiaro e sostenibile del bilancio dello Stato, che garantisca il mantenimento delle promesse, in termini di garanzia che le condizioni offerte non verranno stravolte dagli eventi.
Discutendo con i lavoratori su come far fronte al debito, emerge la consapevolezza che serviranno altri sacrifici per mantenere servizi pubblici eccellenti, ma non sono disposti ad accettarli supinamente se non verrà fatta giustizia, ovvero, per fare l’esempio degli esempi, se non sarà perseguito chi ha causato la voragine Delta, sia con riferimento a chi consapevolmente ha esposto a rischi enormi il nostro Paese, sia rispetto a coloro che hanno avvallato determinate decisioni perché quel gettone percepito all’interno del C.diA. di Cassa di Risparmio faceva gola. È stucchevole ancora oggi sentire qualche politico affermare che San Marino è stata scippata con la chiusura coatta di quel gruppo, non tanto perché non lo si possa ritenere un abuso da parte delle autorità italiane preposte, ma perché ogni buon amministratore deve diversificare il rischio, mentre far confluire 4 miliardi di euro in quel progetto era un azzardo.
Allo stesso modo, se la impressionante mole di NPL interni dovesse ricadere sulla testa della gente che lavora o percepisce una pensione, la reazione sarebbe giustamente molto forte, visto che stanno già pagando il credito d’imposta concesso alle banche per assorbire quelle fallite, senza che ancora nessuno sia stato chiamato a risponderne. Non si può che arrabbiarsi quando chi ha prestato soldi, peraltro non suoi, senza garanzie, e chi ha contratto dei debiti e non li ripaga, pur avendo patrimoni personali, ancorché affidati a familiari o personaggi di fiducia, la faccia franca. Questo vale non solo per gli NPL delle banche, ma anche per i contributi e le tasse o imposte non pagate. Fermo restando che va aiutato chi ha un’attività che sta passando un periodo di difficoltà e cerca di portarla avanti, dando anche lavoro ad altre persone, non mi spiego come mai le aziende che hanno chiuso i battenti senza onorare i propri debiti non vengano fatte fallire.
Stando alla mole di crediti vantati da banche, Stato e ISS, in ordine di grandezza, si tratta di centinaia di milioni di euro e riesce difficile pensare che non ci sia un ordine superiore affinchè i nomi di questi soggetti non vengano resi noti e non vengano dichiarati falliti. Non lo dico per giustizialismo spicciolo, ma perché ciò è necessario anche al fine di rendere evidente a nuovi eventuali investitori che la Repubblica di San Marino vuole attrarre e incentivare imprese virtuose, mentre quelle che avessero in mente di sfruttare un sistema nel quale chi non onora i propri impegni comunque la fa franca devono sapere che la pacchia è finita.
È ingiusta la disparità di trattamento quando, se una persona onesta non è in grado di ottemperare ad un adempimento verso lo Stato o l’ISS, Banca Centrale attiva i pignoramenti dei beni personali, ma se si tratta di una s.r.l. priva di patrimonio o di soggetti insolventi che si sono spogliati di ogni bene, affidandoli a parenti e amici, non vengano attivate le procedure fallimentari, affinchè si sappia chi ha creato buchi che altri dovranno pagare.
È vero che in molti casi potrebbe succedere che lo Stato si sobbarchi ulteriori costi senza averne un ritorno certo, perché Giudici, Procuratori e Ufficiali Giudiziari devono comunque essere pagati, ma sono convinto che a lunga distanza i benefici sarebbero di gran lunga superiori, per non parlare del principio generale di giustizia sulla base del quale chi sbaglia deve pagare. In effetti, il buon funzionamento della giustizia, inteso come velocità nella celebrazione dei processi civili e penali e la conseguente certezza della pena, è uno degli elementi determinanti nell’attribuzione della posizione di classifica del “Doing Business”, ovvero la definizione dei Paesi più attrattivi per le imprese.
Anche per questo mi rammarica vedere il clima di scontro che si è verificato in Tribunale e rispetto al quale la politica non ha trovato di meglio da fare che schierarsi da una parte o dall’altra, alimentando il convincimento della popolazione che anche dei Giudici non ci si possa fidare. Rinnovo quindi a tutte le forze politiche l’invito a mettere da parte i personalismi e a cercare le condizioni affinché le grandi scelte siano compiute con la massima condivisione, a cominciare dal settore bancario.
Tale onere spetta principalmente alla maggioranza, perché il clima da stadio che si è creato sulla materia, tra commissariamenti e liquidazioni coatte, bilanci in perdita di mezzo miliardo, annunci di fusione tra istituti bancari, ha portato ad una perdita di fiducia da parte degli stessi cittadini sammarinesi, che stanno tuttora facendo confluire fuori territorio i loro risparmi.
Come possiamo pensare che abbia efficacia qualunque politica di sviluppo, tesa a richiamare nuovi investimenti, se i primi a non fidarsi del loro Paese sono proprio coloro che ci vivono? Lo stesso dicasi rispetto al dibattito sull’indebitamento pubblico. Prima di pensare a richieste di prestiti internazionali dovremmo poter valutare se e come i cittadini potrebbero farvi fronte, in tutto o in parte, ma al momento non ci sono le condizioni per poter intavolare un confronto sereno in merito.
La divisione tra le forze politiche che si è verificata sulla cessione degli NPL di Delta, il cui dibattito è rimasto chiuso all’interno del Palazzo senza dare la possibilità alle forze sociali ed economiche di farsi la propria idea in proposito, è emblematica. Abbiamo ascoltato opinioni favorevoli e contrarie, egualmente supportate da apparenti valide ragioni, per cui i cittadini hanno dovuto affidarsi alla fiducia che ognuno di loro ha in una od un’altra forza politica. Si pensi che la nostra richiesta di conoscere come erano composti tali crediti, in particolare quelli al consumo, ovvero il numero delle posizioni e la quantità di ciascuna, anche per scaglioni, non ha avuto risposta. O meglio, Cassa di Risparmio ci ha fatto sapere che neanch’essa ne era a conoscenza, in quanto tutte queste informazioni erano in capo alla Società di Gestione Crediti Delta, cui è stato affidato il compito di recuperare i crediti in questione.
Come hanno fatto allora la Commissione Finanze ed il C.diA. di Cassa a decidere in merito alla congruità dell’offerta? Ci siamo affidati ciecamente ai pareri delle varie società specializzate? Le ordinanze del Giudice Morsiani gettano un’ombra sull’affidabilità di queste ultime. E chi era contrario alla cessione, sulla base di quali elementi era convinto che le azioni di recupero, al netto dei costi di gestione, avrebbero dato un risultato migliore? Rimango con il dubbio, ma ora bisogna guardare avanti. Rispetto all’indebitamento pubblico, dobbiamo avere contezza di quale sarà realmente, ovvero se il conto è chiuso con il bilancio 2016 di Cassa oppure ci dobbiamo aspettare qualche altra sorpresa.
Inoltre, un conto è spalmarlo in 25 anni, come previsto dal c.d. 5 ter ed un altro sarebbe dovervi fare fronte immediatamente, come sembra essere l’ultima idea in ordine di tempo del Governo. Propendo per la prima ipotesi, eventualmente anche rivalutando la tempistica, perché trovo assurdo contrarre un debito per coprire anche crediti che, a detta di molti, di cui diversi facenti capo alla stessa maggioranza, in realtà potrebbero essere recuperati. In questo senso, il dibattito aperto rispetto a chi rivolgersi per un prestito internazionale, che a mio avviso dovrebbe svilupparsi solo a seguito del convincimento che non potremmo farvi fronte con risorse interne, mi appassiona poco.
Infatti, chiunque ci prestasse dei soldi vorrebbe essere sicuro di riaverli indietro alle scadenze pattuite e quindi il nostro bilancio dello Stato dovrebbe comunque tenere conto delle rate e degli interessi da pagare annualmente. Sia che il debito resti all’interno o venga contratto con soggetti esteri, serve comunque un piano pluriennale che garantisca la solvibilità del debito. Ho già detto che preferirei la prima ipotesi, perché un Paese troppo indebitato verso l’esterno non è più padrone a casa propria, visto che ogni variazione al programma concordato può essere apportato solo in senso migliorativo, ovvero riducendo i tempi di restituzione del debito.
In caso contrario, ovvero in presenza di imprevisti che richiedessero una dilazione, si è costretti a subire le imposizioni di chi tiene i cordoni della borsa. Non nascondo che questa situazione mi preoccupa molto, visto che stiamo parlando di chiudere un buco e non di finanziare investimenti. Ciò non toglie che nel nostro Paese è presente una grande ricchezza privata, detenuta da cittadini ed imprese, per cui siamo in grado di affrontarla, facendo le scelte giuste. Anche da noi ci si confronterà, o scontrerà a seconda di come la politica deciderà di affrontare l’argomento, sulle diverse teorie in auge a livello mondiale, ovvero l’austerity o le politiche espansive. In parte il dibattito è già iniziato, anche all’interno del nostro sindacato.
Fermo restando che non esiste una ricetta uguale per ogni Paese e che San Marino non è al momento in grado di emettere titoli di debito pubblico che possano essere venduti sui mercati internazionali, ritengo che non dovremmo rimandare interventi tesi a mettere in sicurezza il bilancio dello Stato. Infatti, è vero che ogni taglio alla spesa e inasprimento fiscale produce recessione ma è altrettanto vero che per fare bilanci in deficit occorre da un lato avere chi ti presta i soldi e dall’altro avere evidenza che i benefici siano superiori ai danni arrecati dall’accumulo del debito.
Abbiamo esempi non troppo lontani da noi di come il progressivo incremento del debito stia scaricando sulle nuove generazioni il mancato coraggio, o la irresponsabilità giudicate voi, di non avere chiesto sacrifici ai cittadini quando sarebbe stato necessario. Il conto rischia di diventare sempre più salato ed io non mi accomuno a coloro che dicono: “ci penseranno quelli che verranno dopo”. Veniamo quindi al capitolo riforme.
Non so se il Governo e la maggioranza siano in stato confusionale, si apprestino a affrontare una nuova campagna elettorale o davvero si siano resi conto che occorre darsi una regolata per non andare a sbattere contro il muro. Infatti, siamo passati da annunci di riforme lacrime e sangue da farsi entro fine anno a interventi stralcio, rimandando la discussione in tema di pensioni e imposizione fiscale al prossimo anno, motivando il tutto con l’esigenza di affrontare questi argomenti con un confronto più approfondito.
Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, anche perché l’alternativa sarebbe stata uno sciopero generale dai toni durissimi. Non che questo scenario sia archiviato, visto si tratta di un rinvio e che la legge di bilancio è ancora da discutere e potrebbe riservare sorprese che meritino una reazione da parte di lavoratori e pensionati. Intanto però il fatto che le proposte più provocatorie siano state accantonate è un merito che voglio ascrivere alla nostra azione. Quando sono arrivate le ipotesi di riforma delle pensioni e dell’IGR, non vi era dubbio che si trattasse di una vera e propria dichiarazione di guerra alla CSU. Non sto a ricordarle, perché voglio dare per scontato che siano conosciute.
Erano edulcorate da una generica volontà di mettere in atto azioni di contrasto alle diffuse pratiche di evasione fiscale, mentre è da qui che bisogna partire e non ci possiamo più accontentare delle promesse, come facemmo nel 2013, a fronte di un leggero incremento della pressione fiscale su una base imponibile già di per sé bassa. I dati che ci sono stati forniti dal 2013 in poi (attendiamo con ansia quelli del 2017, anche se non ci aspettiamo grandi variazioni), confermano un trend, presente fin da prima della crisi, cui nessuna persona di buon senso può credere, pur nella consapevolezza che c’è effettivamente anche una realtà fatta da imprese che oggi faticano a chiudere i conti, anche a causa della riduzione della capacità e volontà di spesa delle famiglie e di un ceto bancario che, invece di supportarle, le pianta in asso.
Per questo abbiamo ribadito al Governo che i controlli devono essere effettivi e immediati, a cominciare da quelli relativi alle transazioni non registrate con la SMAC e all’incrocio dei dati tra i beni posseduti, comprese le quote societarie detenute e utilizzando altresì lo scambio d’informazioni in essere con l’Italia e la Svizzera, in rapporto ai redditi dichiarati. La patrimoniale che stiamo pagando, pur iniqua perché non mette insieme tutti i beni posseduti, potrebbe già fornire utili informazioni, ma su questo tema tornerò dopo. Dopo due anni di legislatura non possiamo ancora sentirci dire che l’Ufficio Tributario va dotato degli strumenti e delle risorse umane necessarie a mettere in atto tali controlli. Ora va fatto e basta!!!
Se solo venisse annunciata, da parte del Governo, la partenza di una reale e concreta campagna di lotta all’evasione fiscale, sono convinto che già con le dichiarazioni dei redditi del 2018 ne vedremmo i primi risultati. Questa andrebbe accompagnata da una sostanziale riduzione della soglia oltre la quale scatta il reato di evasione fiscale, perché chi non paga le tasse è un ladro e come tale va trattato. Un simile deterrente sarebbe più efficace delle sanzioni pecuniarie, perché chi nasconde i redditi mette in conto che possa essere colto in flagrante ed è preparato a farvi fronte, nel caso, oppure si spoglia di ogni bene affidandolo a parenti o persone di fiducia, appositamente per mettere al sicuro il malloppo.
Mi rendo conto che questo sia un tema divisivo, da un lato perché c’è chi sostiene che dare la sensazione della presenza di uno stato di polizia non attrae investimenti e dall’altro perché ci sono i titolari di licenza individuale, recentemente rappresentati dall’Unione Artigiani, che “chiedono giustizia”, a loro dire determinata dal principio c.d. “pari reddito, pari aliquota”. Rispetto alla prima argomentazione, ritengo che gli investimenti seri vengano attratti da sistemi dove c’è meno burocrazia possibile, certezza delle regole e fisco leggero, intendendo con questo le aliquote e non il fatto che si può dichiarare quanto si vuole perché tanto non controlla nessuno. Con riferimento alla seconda, mi limito a dire che se i lavoratori autonomi utilizzassero anche le deduzioni forfetarie che hanno i lavoratori dipendenti sarebbero tutti a reddito zero, viste le dichiarazioni presentate.
Tornando a parlare di cose serie, nelle 77 assemblee precongressuali ho trovato il più delle volte lavoratori consapevoli di beneficiare di uno stato sociale invidiabile, come tuttora può vantare la Repubblica di San Marino, pur con tutte le pecche ancora presenti e con la percezione di una graduale ma costante riduzione della qualità dell’assistenza sanitaria, che va assolutamente scongiurata. A condizione che tutti i redditi vengano accertati, a maggior ragione in una situazione di progressivo deterioramento del bilancio dello Stato, i lavoratori sanno che verosimilmente serviranno ulteriori contributi anche da parte di chi è a reddito fisso. Questo viene spontaneo anche perché è costante il confronto quotidiano con lavoratori che vivono nella vicina Italia e ne rappresentano la situazione.
Questo non significa affatto che quello debba essere il modello da seguire, ma unicamente che in cuor nostro sappiamo che non si potranno sostenere all’infinito sanità pubblica ed istruzione quasi completamente gratuite, solo per citare due dei pilastri di ogni moderno stato sociale, pagando il 4,6% di tasse su un reddito di 2.000 euro lordi al mese ed il 7,1% su un reddito di 3.000 euro lordi al mese, per chi aderisce alle deduzioni SMAC. Allo stesso modo, a fronte di un contributo per il primo pilastro, che non arriva al 20% e fino a dieci anni fa era pari alla metà, non si possono sostenere pensioni superiori all’ultimo stipendio netto, come ancora oggi succede per chi vanta carriere lavorative particolarmente lunghe. Tanto che il nostro fondo è in passivo già da alcuni anni, nonostante il rapporto tra lavoratori dipendenti e pensionati sia ancora pari a tre contro uno, ed è destinato ad erodere in poco tempo le risorse accumulate, in assenza di un sostanzioso contributo da parte dello Stato.
Nonostante ciò, nell’incontro avvenuto la scorsa settimana alla presenza del nuovo Segretario di Stato per le Finanze, oltre alla riproposizione del taglio alla spesa pubblica, in particolare degli stipendi, e della parificazione delle imposte sulle pensioni a quella per i lavoratori dipendenti, il Governo ipotizza di ridurre di 20 milioni all’anno il contributo dello Stato nei fondi previdenziali. Non è stato indicato con chiarezza se l’obiettivo è il pareggio di bilancio e quale sarebbe l’ammontare complessivo della manovra, ma il messaggio mi pare chiaro: toccare il portafoglio solo a chi, nell’immaginario collettivo, è considerato privilegiato e spostare nuovamente sulle nuove generazioni il peso della copertura del disavanzo dei fondi pensione. Questa mossa è dilatoria e funzionale a non scatenare una reazione di massa.
A mio avviso, ridurre il contributo nei fondi pensione è da irresponsabili, anche perché di fatto riguarderebbe unicamente quello dei lavoratori dipendenti, visto che, diversamente, andrebbero tagliate le pensioni sociali e di accompagnamento, oltre a quelle facenti capo a gestioni in passivo, per cui tale provvedimento si concretizzerebbe unicamente in una ulteriore erosione, pari a 20 milioni all’anno, delle riserve accantonate per i pensionati ex lavoratori dipendenti. Ribadendo che io considero necessario chiudere il bilancio almeno in pareggio, non so però se i lavoratori sarebbero disponibili a scendere in piazza per sostenere un’alternativa a questa scelta, quale una nuova patrimoniale, ma io ne sarei convinto. Ritengo che il senso di responsabilità che ci contraddistingue imponga che, oltre a dire cosa non ci piace di queste proposte, dovremmo anche indicarne di alternative. Lo stesso vale per le opposizioni, che spero potremo incontrare per conoscere le loro ipotesi di legge di bilancio, anche perché chiunque potrebbe avere l’idea giusta cui nessuno aveva pensato.
In proposito, non posso nascondere la sorpresa rispetto alla loro presa di posizione in merito al paventato taglio lineare degli stipendi pubblici, perché tra i banchi dell’opposizione siede chi qualche anno fa ha approvato un intervento simile, anzi caricato maggiormente sui precari, ovvero coloro che in assoluto hanno le peggiori condizioni di trattamento, e chi invece proponeva l’azzeramento di tutte le indennità, che costituiscono un panorama molto variegato, perché va dai medici agli addetti alla raccolta dei rifiuti, dagli insegnanti agli infermieri ed agli assistenti ospedalieri.
Rispetto a tale argomento, per raggiungere l’equilibrio di bilancio difficilmente si potrà non prendere in considerazione l’ipotesi di una riduzione della spesa corrente, obiettivo su cui peraltro tutte le forze politiche si dichiarano d’accordo. Dovremo essere attenti al fatto che ciò non si traduca in una diminuzione dei servizi ed essere in grado di individuare proposte concrete, alternative al taglio degli stipendi che, complessivamente, sono pari ad oltre 120 milioni di euro l’anno, cui vanno aggiunti i contributi a carico dello Stato, per una spesa complessiva di circa 160 milioni.
Peraltro, è vero che sono fermi da 8 anni, così come quelli dei lavoratori occupati in diversi comparti del settore privato, ma è altrettanto vero che, prendendo a riferimento il monte salari e stipendi del 2017 in rapporto al 2010, anno in cui si è raggiunto il massimo in termini di occupati nel settore pubblico e di spesa per le retribuzioni, queste sono scese solo del 6% contro una riduzione del numero dei dipendenti pari all’11,5%. Ciò significa che l’importo medio è aumentato, probabilmente a causa del fatto che la maggior parte dei pensionamenti è avvenuto tra i salariati e coloro che sono soggetti al contratto privatistico, i quali hanno retribuzioni medie più basse, anche per effetto di un numero di scatti di anzianità dimezzato e di valore più basso rispetto ai dipendenti in organico, ovvero 5 contro 10.
Tenendo conto che la gran parte delle nuove assunzioni sarà principalmente relativa a figure che richiedono la laurea e che dovranno avere un adeguato livello retributivo, oltre al fatto che il precariato, giustamente, dovrebbe essere ridotto ai minimi termini, la prospettiva è che la media degli stipendi tenderà ad aumentare. Certo è che se già nel 2019 non si riscontrasse una inversione di tendenza nelle entrate fiscali a carico delle imprese, dimostrando quindi passi avanti nell’accertamento dei redditi, avrebbero ragione coloro che sostengono, ed io sono tra questi, che toccare prima i redditi fissi sarebbe l’ennesima ingiustizia. Quindi, ribadisco che occorrerebbe una nuova imposta patrimoniale, temporanea fino a quando tali accertamenti non dimostreranno la loro efficacia e tarata in modo tale da scovare coloro che hanno grandi patrimoni ma dichiarano piccoli redditi.
Ricordo che la nostra proposta, formulata nel maggio scorso in alternativa a quella del Governo, aveva riscontrato diversi favori, anche dalla stessa maggioranza, salvo poi affermare che i nostri uffici non sarebbero stati in grado di gestirla, data la complessità. Si trattò di una risposta desolante, anche se probabilmente supportata da una base di verità, ma ora ci sarebbe tutto il tempo di attuarla. Sostanzialmente, si tratta di cumulare tutti i beni mobili e immobili, posseduti direttamente o tramite quote in società sia a San Marino che all’estero, prevedendo fasce di esenzione e deducendo le tasse già pagate sui redditi e sui medesimi beni. Sull’insieme di detti beni le aliquote dovrebbero essere progressive, rispettando quindi il principio dettato dalla Carta dei Diritti, la quale stabilisce che chi ha maggiori disponibilità economiche deve pagare di più. Si rispetterebbe altresì un principio di equità anche tra gli imprenditori, perché a parità di patrimonio, chi dichiara redditi attraverso le proprie attività economiche pagherebbe di meno rispetto a chi fa il furbo.
È vero che, in linea generale, le patrimoniali potrebbero spaventare gli investitori, ma nei Paesi ove queste sono presenti in realtà non pare che questo avvenga, in quanto la differenza la fa il grado complessivo di competitività offerto dal sistema, e non di certo un singolo provvedimento, che peraltro potrebbe non essere applicato per i primi anni di residenza in territorio. A questo proposito, ho parlato poco di politiche di sviluppo, che invece dovrebbe caratterizzare il dibattito tra le forze politiche e sociali. Infatti, l’indebitamento farebbe meno paura in presenza di una progressiva e visibile crescita economica, determinata dall’arrivo di nuove attività imprenditoriali.
È vero però che affinché questo succeda, come ricordavo nel corso di questa relazione, occorre in primo luogo stabilizzare la finanza pubblica e privata, attuando le riforme necessarie, e ristabilire un clima di concordia all’interno del Paese. Abbiamo ascoltato varie idee e proposte in tema di sviluppo economico, in sordina rispetto al dibattito sulle prospettive del sistema bancario, ma nessuna di queste comprende le attività manifatturiere, e ciò è desolante, perché sono il pilastro dell’economia sammarinese, senza il quale il Paese sarebbe sul lastrico. Eppure c’è ancora chi guarda a modelli come il Lussemburgo. Non mi voglio addentrare anche in questa discussione, limitandomi a ricordare che la nostra visione è racchiusa nel titolo di questo Congresso: “Più valore al lavoro”. Da lì dobbiamo ripartire, valorizzando le imprese dell’economia reale che, dopo le dolorose ristrutturazioni che abbiamo dovuto affrontare nei primi 5 o 6 anni della crisi, hanno ripreso ad investire e ad assumere.
Mi riferisco ancora una volta al settore manifatturiero che, come dimostrano i dati diffusi sulla loro crescente patrimonializzazione, redditività e crescita occupazionale, è in controtendenza rispetto a quasi tutti gli altri, per i quali occorre predisporre comunque politiche di consolidamento e sviluppo, in particolare per favorire l’occupazione femminile. In proposito, non si può non prendere atto che la c.d. legge sviluppo abbia ampiamente fallito gli obiettivi annunciati dal Governo, quando dichiarava che la libertà per le imprese di assumere forensi ed il mix di incentivi/disincentivi avrebbe favorito sia l’occupazione interna che lo sviluppo delle aziende. Infatti, il numero di queste ultime si è ulteriormente ridotto ed i disoccupati sono tornati a crescere, seppure di poco, dopo tre anni di graduale ma costante riduzione, a fronte di un balzo in avanti di nuovi occupati per oltre 600 unità in un anno, come non si vedeva da prima della crisi, quasi tutti concentrati ancora una volta nel settore manifatturiero, il quale si distingue anche per il fatto che la metà dei nuovi assunti sono residenti.
Considerando che di questi 600 i 5/6 sono frontalieri, significa che gli altri settori in media hanno mantenuto stabile il numero degli occupati, ma ridotto quelli residenti, con particolare riferimento alle donne. Ciò si evince anche dal numero dei licenziamenti collettivi, che sono calati come numero assoluto ma non per quanto riguarda il genere femminile, in particolare residente. Il dato assoluto ci dice che il numero di donne occupate è salito in un anno di 180 unità, quasi totalmente provenienti da fuori territorio e con inquadramenti bassissimi. Tale condizione contrattuale è rilevante anche tra i nuovi assunti di genere maschile, a dimostrazione che le imprese non abbisognano di figure professionali elevate, quindi reperibili anche in territorio, oppure che scaricano sui lavoratori il costo dell’addizionale prevista per la libertà di assunzione di soggetti non residenti, esattamente come avevamo preventivato.
Abbiamo definito tale addizionale un pizzo di Stato, perché l’Amministrazione ricava introiti dallo sfruttamento di persone provenienti dalla vicina Italia. Sono sempre più frequenti segnalazioni di lavoratori cui non vengono pagati gli straordinari e i festivi, ma a protestare sono prevalentemente i residenti. Così come il fenomeno dei contratti a part-time, ben 2.360, pari al 15% del totale degli occupati, è inverosimile ed abbiamo frequenti riferimenti di orari completati in nero. Tale fenomeno è particolarmente presente nel settore del commercio e dei servizi e, ancora una volta, riguarda prevalentemente le donne.
Non parliamo quindi solo di sfruttamento, ma anche di evasione fiscale e contributiva, cui non riusciamo a far fronte da soli, visto che quasi mai questi lavoratori sono in grado di produrre prove o vogliono denunciare gli imprenditori, per paura di non riuscire a sopportare la pressione che inevitabilmente si troverebbero a subire e di avere difficoltà a trovare un’altra occupazione. Torniamo quindi al tema dei controlli e delle sanzioni, che sono insufficienti per contrastare questo fenomeno. Per questi motivi, colgo favorevolmente l’annuncio del Segretario di Stato per il Lavoro relativamente alla volontà di rivedere la c.d. legge sviluppo.
Stando a quanto ho percepito in occasione di una trasmissione televisiva però, non intende reintrodurre un limite alla libertà di assunzione in territorio di lavoratori forensi, ad esempio limitandola unicamente ai livelli medio-alti, ma aumentare ulteriormente i disincentivi e gli incentivi. Oltre a non funzionare, ciò lederebbe ulteriormente la dignità delle donne, perché il fatto che lo Stato cerchi di rendere effettivo il diritto al lavoro tollerando il mancato rispetto dei contratti di lavoro e utilizzando le somme incamerate dallo sfruttamento di persone per incentivare le assunzioni di altre, è una teoria che si commenta da sola. Ritengo che se non riusciremo a far modificare quella normativa nella direzione auspicata dovremo mettere in atto anche iniziative di cui il sindacato non si è mai fatto portavoce e che coinvolgono non solo i lavoratori, ma l’intera cittadinanza. Una buona notizia relativa alla c.d. legge sviluppo, però c’è, ed è la stabilizzazione dei lavoratori frontalieri.
Finalmente, ad oltre dieci anni dalla lotta condotta con decine di ore di sciopero ed il blocco delle zone industriali, quando i lavoratori del settore industriale chiedevano la regolamentazione dei lavori atipici e la riduzione della precarietà dilagante, siamo riusciti a rendere effettivo un principio basilare, ovvero la parità di diritti tra persone che lavorano fianco a fianco. In questi 4 anni di mandato congressuale abbiamo parlato poco di sicurezza sui posti di lavoro, ad eccezione di quando è deceduto l’autista di un mezzo di trasporto dei rifiuti. Auspico che vengano accertate le responsabilità e che, qualora ve ne fossero a carico dell’azienda, venga fatta giustizia verso questo lavoratore ed i suoi familiari, anche se nel frattempo ha chiuso i battenti. È vero che, in generale, i dati indicano una situazione in miglioramento ma anche su questa materia le istituzioni preposte non fanno fino in fondo il proprio dovere. Mi riferisco ai procedimenti penali che dovrebbero partire d’ufficio in caso di prognosi superiore a 30 giorni. In realtà, non è ancora superato il fatto che, quando la prima prognosi è pari o inferiore a tale soglia, ma viene prolungata da certificati medici successivi, se non sono i lavoratori a denunciare l’azienda (purtroppo abbiamo assistito a diversi casi dove non se la sono sentita), la Magistratura non attiva i processi penali. Ciò non consente di individuare eventuali responsabilità delle imprese e di rendere effettivo il principio di deterrenza previsto dalla normativa, oltre a non consentire all’ISS di recuperare i costi sostenuti, spesso rilevanti. Durante questi 4 anni abbiamo invece parlato molto di contratto di lavoro e di come questo dovesse mantenere le caratteristiche istituite nel 1961, ovvero l’efficacia erga omnes per tutti i lavoratori e tutte le imprese dei vari settori.
Non era scontato, visto che questo modello non ha eguali nel mondo e che vi erano da più parti spinte convergenti verso il mito della contrattazione aziendale, il quale, è risaputo, crea enormi differenze di trattamento tra i lavoratori, a seconda che siano occupati in grandi o piccole imprese. La riprova ce l’abbiamo anche a San Marino con il contratto dei servizi, introdotto ufficialmente per dare copertura ad aziende scoperte da contrattazione, ma che in realtà ha fatto sì che i lavoratori di aziende, che prima avrebbero beneficiato delle condizioni previste nel settore industriale o commerciale, ora sono rimasti indietro, perché è molto più difficile rinnovare contratti in tempi di crisi, avendo alla base un mondo fatto di piccole imprese che non si riesce ad organizzare.
L’allora Segretario di Stato per il Lavoro ed il suo staff avevano capito come un modello contrattuale basato sull’accertamento della rappresentatività dei sindacati dei lavoratori e delle imprese, oltre che su regole precise per la stipula dei contratti di lavoro con efficacia obbligatoria per entrambe le parti, riduce le disparità e la conflittualità. Gli va dato merito di avere portato a compimento tale riforma, anche perché questo modello contrattuale costituisce un valore aggiunto da spendere tra i punti con i quali la Repubblica di San Marino si proporrà agli investitori esteri. Il nostro contratto è l’unico rinnovato in tutto il panorama sammarinese e spero si riesca a fare in modo che faccia da traino anche per gli altri settori, specialmente quelli che prevedono condizioni economiche e normative peggiori. Anch’esso dovrà essere sottoposto alle nuove regole, che prevedono prima la verifica della rappresentatività dei singoli sindacati e poi la sottoposizione a referendum dei risultati raggiunti durante le trattative. Per noi non cambia nulla, visto che lo facciamo da decenni, ma altri che si chiudevano all’interno di 4 mura e firmavano accordi con la pretesa di considerarli obbligatori per tutti, dovranno venire allo scoperto. È un contratto dalla prospettiva di lungo termine, in quanto mette in relazione la salvaguardia degli stipendi lordi dall’erosione dell’inflazione con la garanzia per le imprese di poter utilizzare parecchie ore di flessibilità o straordinario, entro certi limiti giornalieri ed annuali, per far fronte alle richieste del mercato, caratterizzate dall’instabilità creata dalla c.d. globalizzazione.
Lo scorso anno oltre il 90% dei lavoratori ha confermato il consenso a questa impostazione ma non voglio sottovalutare il disagio che dove i carichi di lavoro sono particolarmente stressanti l’estensione degli orari giornalieri possa pesare di più che in altre circostanze. Ricordo con piacere che anche in queste aziende è stato comunque accolto con favore il rinvio degli aumenti previsti per quest’anno, al fine di destinare ulteriori risorse del Fondo Servizi Sociali in favore di chi ha perso lavoro e stipendi a causa dei fallimenti aziendali. Questa è solidarietà vera e non strombazzata a vanvera e fa onore a tutti i lavoratori del settore ed ai loro rappresentanti sindacali, che per primi hanno dato il via libera a questo accordo. Oggi è ancora più importante sottolineare la lungimiranza di questo contratto, alla luce di una ripresa dell’inflazione che anche quest’anno sta viaggiando intorno all’1,3%, come nel 2017.
Nonostante questo, sebbene le recenti previsioni fossero più basse (comunque andranno verificate formalmente al termine del 2019), dopo sei anni di vigenza di questo meccanismo contrattuale le retribuzioni sono aumentate dell’1,1% in più dell’inflazione, nonostante gli aumenti zero previsti quest’anno. Va detto altresì che l’indice preso a riferimento dal contratto è quello armonizzato europeo, che nello stesso periodo è stato dello 0,8% più alto di quello per le famiglie di operai e impiegati, utilizzato ad esempio per la rivalutazione delle pensioni. Pertanto, ritengo che questo contratto rimanga il migliore possibile nel contesto in cui ci troviamo. A dire il vero, con i colleghi avevamo anche iniziato a fare un ragionamento relativo a come cercare di rafforzare la parte normativa del contratto, con specifico riferimento agli interventi a carattere sociale, in particolare lo sviluppo della previdenza integrativa attraverso il FONDISS.
Sarebbe importante soprattutto per i giovani, visto che il primo pilastro sarà molto meno generoso di oggi, ma occorre far sì che i fondi vengano gestiti e investiti sulla falsariga di come viene fatto dai metalmeccanici italiani. Se la prospettiva non diventerà questa, piuttosto che l’affidamento alle banche locali, ovvero non saranno assicurati rendimenti degni di questo nome e costi di gestione ridotti, il FONDISS non ha motivo di esistere, con la conseguenza che la sua implementazione attraverso la contrattazione collettiva rimarrebbe un’utopia. È stata una relazione lunga, forse anche troppo, ma essendo l’ultima che farò con questo incarico, ho voluto trattare tutti gli argomenti che ritenevo meritevoli di maggiore approfondimento. Sono giunto al limite dei tre mandati previsti dalle regole che ci siamo dati per i Segretari delle Federazioni ed è quindi il momento di parlare di bilanci e prospettive per la FULI e la CSdL.
Prima però prendo ancora un minuto per parlare dell’unità all’interno della CSU. Abbiamo discusso a lungo nel corso degli anni e dei Congressi della prospettiva dell’unità organica, cui nel 1976 sembravano tendere le due Confederazioni, ma dobbiamo prendere atto che non ci sono le condizioni per concretizzare quel progetto. Forse è anche meglio, perché a volte si litiga di più quando si sta nello stesso appartamento, piuttosto che in due diversi, seppure comunicanti. Continuo a pensare che poter dedicare le stesse risorse umane sdoppiando gli impegni consentirebbe una maggiore presenza sui posti di lavoro, che ci viene richiesta spesso, ma è altrettanto doveroso sottolineare con soddisfazione che i rapporti interni alla FLI sono ottimi, fondati sul reciproco rispetto anche quando le opinioni non convergono.
Ritengo che questa Federazione unitaria contribuisca molto a far sì che lo stesso avvenga a livello confederale e questo è ciò che davvero conta per organizzazioni che vantano una lunga storia di lotte e conquiste per le persone che ne hanno più bisogno e vogliono continuare a farlo. Tornando a noi, so che molti di voi si aspettavano che mi candidassi alla Segreteria Generale della Confederazione, visto che Giuliano ha detto in più occasioni che sarebbe andato in pensione. Non intendo farlo ed ho chiesto a lui di candidarsi per la terza volta. Io mi rendo disponibile ad affiancarlo, se il Congresso Confederale e lui stesso lo riterranno. Credo che alla luce dei pensionamenti che ci sono stati e della conseguente necessità di ricostituire una struttura confederale, il rinnovamento non può essere il baluardo che sostituisce la competenza e la funzionalità di un’organizzazione come la nostra.
È vero che Giuliano avrebbe dato una mano comunque, ma reggere il timone di una nave che naviga nelle acque tempestose della Repubblica di San Marino di oggi, richiede nervi saldi ed esperienza che io ancora non ho, a differenza sua. Avere la responsabilità di una Federazione, seppure sia la più importante in termini numerici, non è affatto la stessa cosa che guidare una Confederazione senza prima avere svolto almeno un mandato al livello superiore. Ho deciso che non mi candiderò neanche nel Direttivo di Federazione, cui potrà quindi far parte una persona in più, fermo restando che vi parteciperò molto volentieri se sarà ritenuto utile, così come sarò sempre a disposizione qualora mi venga chiesto di dare una mano. Ago e Willy non faranno sentire la mia mancanza, ma serviranno comunque risorse fresche, per cui vorrei sottolineare un passaggio che trovate all’interno delle tesi.
Si afferma che, nella selezione della classe dirigente a tempo pieno, la CSdL ritiene che si debba prestare attenzione a chi fa la gavetta, ovvero prima si impegna all’interno delle strutture sindacali aziendali, poi viene eletto nel direttivo e via di seguito. Ciò perché occorre dimostrare che l’impegno sindacale può anche nascere da un colpo di fulmine ma si deve consolidare nel tempo. Ci tenevo a fare questo riferimento perché ci sono organizzazioni che sono rappresentate da giovani laureati assunti per fare i sindacalisti, come se fosse un mestiere. So che questa immagine piace a molte persone perché da l’impressione di un sindacato che valorizza i giovani. Sarò all’antica, ma non mi piacciono i sindacalisti a chiamata, che parlano di meritocrazia quando non sono stati prescelti da chi dovrebbero rappresentare. Ad oggi vantiamo 2.192 iscritti rispetto ai 1.979 di 4 anni fa, con una crescita di 213 unità, pari all’11% circa.
Di questi, coloro che si sono iscritti per la prima volta sono 657, il che significa che riusciamo a dare un buon servizio alle persone che si recano nei nostri uffici e a incutere fiducia, nonostante la gravissima crisi che la rappresentanza collettiva a tutti i livelli sta attraversando all’interno dei Paesi occidentali. Rispetto al totale degli iscritti, 700 sono donne, pari al 32%, i disoccupati sono oltre 250 e qui le donne sono purtroppo in netta prevalenza, mentre i precari, ovvero coloro che hanno un contratto a termine, sono circa 100. Considerato che è difficile pretendere partecipazione da queste persone, vuol dire che circa il 10% degli iscritti assunti a tempo indeterminato, ovvero 180 persone, hanno dato la disponibilità a partecipare a questo Congresso e a quello Confederale. In base al regolamento, 165 di loro hanno diritto di voto oggi e 163 lo avranno il 29 e 30 novembre. Purtroppo solo il 22% sono donne.
Vi assicuro che ce l’abbiamo messa tutta per garantire loro la massima partecipazione ma, nonostante ciò, avremo alcune assenze per motivi familiari e di lavoro, che non sempre si riesce a lasciare, anche se i Congressi sono l’evento che rappresentano il massimo livello di democrazia sindacale e non vi si vorrebbe rinunciare. Ringrazio chi mi ha aiutato in questi anni a raggiungere questi importanti obiettivi, Agostino, Willy e Davide, che si è sempre reso disponibile a dare una mano durante le assemblee per il contratto di lavoro e la preparazione dei Congressi. La passione per l’attività sindacale è cominciata in fabbrica, da cui non mi sono mai scordato di provenire, così come i compagni che ho citato poco fa e che, mi auguro assieme ad altre ed altri, assicureranno il raggiungimento di ulteriori obiettivi per la CSdL ed il movimento sindacale.
Ringrazio altresì tutti i membri del Direttivo uscente e dei Consigli di Fabbrica o Strutture Sindacali Aziendali, per chi preferisce questa dizione, per il sostegno e l’impegno profuso e che sono sicuro continuerà anche in futuro. Care delegate e delegati, vi invito a candidarvi numerosi per entrare nel Direttivo. Mi rivolgo soprattutto ai pochi giovani che ci sono, perché noi stiamo invecchiando. È importante vedere da dentro come lavora questo sindacato e quando secondo voi sbaglia qualcosa non esitate a dirlo in maniera costruttiva: non troverete chi vi darà ragione a prescindere, ma chi vi ascolterà sì.
Auguro a tutti un buon Congresso.
Enzo Merlini